Il karate italiano ha passato tanto recente da poterne rivivere i momenti senza che nella sua storia entri la realtà deformata delle favole. Ricordare i personaggi degli anni più significativi di questo ieri appena trascorso è un modo per capire meglio quelli che stiamo vivendo.
Il principio era il mito!
Quando il judo, approdato alla schematica realtà tecnica dei giochi olimpici, aveva ormai perso la sua marzialità ed ancora non erano apparse sugli schermi le ingenuità mirabolanti del “Piccolo Drago”, comparve in Italia la pattuglia dei maestri giapponesi della Japan Karate Association. Materializzavano le favole alimentate per anni attorno al karate, tremenda disciplina orientale, secondo l’opinione corrente, che la ferocia nipponica, sagacemente confezionata dai films americani sulla guerra del Pacifico, aveva reso la più terribile forma di autodifesa. Correva l’anno 1965.
Sia ben chiaro, non che in Italia il karate fosse sino ad allora sconosciuto. Semplicemente, i pochi che lo praticavano sembravano fare di tutto perché quell’alone di mistero non si dissolvesbe quasi compiacendosi dell’esiguità del numero di adepti selezionati dalla durezza implacabile degli allenamenti: orgogliosa testimonianza dell’acquisita capacità di resistere a tutto.
E neppure di maestri giapponesi mancavano quelle avanguardie ma la loro presenza era sporadica e saltuaria, legata, quasi sempre, ad iniziative isolate. Gli stessi maestri, del resto, volevano che fosse così. Una presenza sistematica e costante in un gruppo avrebbe, infatti, richiesto un sistema organizzativo che avrebbe fatalmente burocratizzato la loro funzione allargando una base che non sarebbe stato più possibile tenere sotto controllo. Meglio, dunque, mantenere un rapporto diretto con poche palestre nelle quali arrivare di tanto in tanto, girando continuamente da un Paese all’altro e costruendosi, così, una vera e propria scuola personale a carattere internazionale. Il sistema funzionava ed indubbiamente sarebbe stato il solo che avrebbe potuto mantenere il karate nella filosofia più rigorosa del dojo che rifiuta per principio le logiche dell’organizzazione di massa. Ma, un giorno, a Roberto Fassi venne un’idea!
L’affermazione provocherà sicuramente reazioni tempestose ma è certo che a Fassi ed alla sua inesauribile curiosità, l’arte marziale italiana deve molto di più che un formale riconoscimento ed il karate in modo del tutto particolare. Perché a quella sua famosa idea si deve la fine dell’era pionieristica. L’idea fu di aprire le porte alla Japan Karate Association ed al suo sistema organizzativo aziendale. L’insediamento in Italia di quella metodologia fu indubbiamente favorito dalla personalità magnetica di Hiroshi Shirai la cui tenacia inossidabile significò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra che si è solo da poco esaurita. La strategia di questo straordinario maestro abbandonò le romantiche consuetudini dei suoi predecessori creando una rete allargatissima di istruttori capaci di capillarizzare in modo uniforme logiche, sistemi ed obiettivi dell’insegnamento. Istruttori ma prima di tutto allievi acriticamente fedelissimi all’interno dei quali operava una pattuglia di pretoriani scelta tra i migliori. A quelli, miliziani selezionatissimi, le cure migliori e più attente affinché, qualunque cosa potesse succedere, fossero il nucleo di riferimento della Japan Karate Association in Italia.
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