C’è una domanda che viene spesso rivolta, dai profani ma non solo da loro, a chi pratica arti marziali: qual è la “migliore” arte marziale? Oppure, in altri termini, perché hai scelto di impegnarti nella pratica, nello studio, nell’insegnamento di una determinata arte o di un determinato stile, piuttosto che di un altro?
Tale domanda può indurre molti praticanti e anche tecnici a esporre le ragioni per cui hanno scelto di dedicarsi alla loro arte marziale, perché praticano un particolare tipo di stile, perché dedicano la loro attenzione alla pratica agonistica oppure perché si astengono dall’impegnarsi in gare e competizioni, e a esporre i motivi per cui privilegiano determinati aspetti di un’arte marziale e delle sue applicazioni.
Qualche volta le spiegazioni fornite sono di tipo razionale e scientifico, legate per esempio al rispetto che un determinato modo di praticare e di insegnare ha per le caratteristiche fisiologiche del corpo umano, o per la incolumità degli atleti durante il combattimento. Altre volte invece le ragioni della scelta emergono dal racconto di esperienze personali, con un substrato esistenziale e affettivo, come per esempio l’incontro con un famoso maestro, capace di dare una sua impronta personale alla pratica, in un determinato periodo della vita.
Personalmente pratico, insegno, studio da decenni il karate shotokan, rimanendo fedele alla sua impronta di fondo, ma mantenendomi aperto a ogni contributo conoscitivo e scientifico che possa venirmi da altri stili o da altre pratiche marziali e sportive, e ritengo di potere fare le seguenti osservazioni.
Il primo elemento che voglio sottolineare è il seguente: non esiste una arte marziale in assoluto migliore di un’altra, non esiste un’arte marziale che risponda magicamente alle esigenze di qualsiasi praticante, che possa soddisfare tutti.
La buona riuscita dipende infatti non solo dalle caratteristiche di una pratica, e non solo dalle qualità e dal talento di un atleta che vi si applica: il buon risultato nasce dall’incontro positivo fra tre dimensioni: l’arte marziale, l’atleta, la struttura didattica e sportiva (il dojo) dove viene svolta la pratica, comprendendo in ciò lo staff di maestri e tecnici.
Tutte e tre le dimensioni sono importanti, ma soprattutto è rilevante che si crei quello che io definisco lo spazio vitale per potere lavorare in modo costruttivo. Quando parlo di spazio vitale parlo di una serie di fattori, che vanno dal contenitore materiale (la palestra) fino al contenitore psicologico rappresentato dal gruppo formato dagli atleti e dai tecnici (e dai genitori degli atleti delle categorie giovanili), e non dimentico contenitori istituzionali più grandi come la Federazione sportiva cui la palestra aderisce. Tutto questo crea lo “spazio vitale” in cui io pratico e insegno karate, e in cui ogni mio collega opera.
L’arte marziale è un “sapere pratico”, cioè un insieme di conoscenze evolutesi nel tempo che però si concretizzano, si incarnano, vivono nei gesti reali di un gruppo di persone, tecnici e atleti, che si ritrovano concretamente in un luogo per praticare.
La loro pratica sarà tanto più efficace quanto più la personalità del singolo avrà sviluppato un senso di appartenenza al suo dojo, un senso di appartenenza motivato e consapevole, e quanto più il dojo saprà accoglierlo con la sua passione e voglia di praticare ma anche con le sue difficoltà psichiche, fisiche e di inserimento relazionale, non come semplice numero, ma come persona che vuole esplorare un mondo complesso e ricco come quello della pratica marziale.
L’elevato livello di interruzioni precoci della pratica da parte di atleti anche promettenti dovrebbe portare non a recriminare, o ad accusare, ma a riflettere su cosa non ha funzionato, nei singoli casi, nell’incontro fra individuo e gruppo, fra aspettative personali e possibilità concretamente offerte non dal “karate” inteso come entità astratta, ma dal karate praticato in quella palestra, con quelle determinate modalità.